Sec. XVI. Compositore italiano nato probabilmente a Correggio, Reggio Emilia, nella prima metà del XVI. Nulla si sa della sua giovinezza e della formazione musicale. Le scarse notizie si ricavano quasi unicamente dalle prefazioni dei suoi libri. Nel 1557 è "cantor" a Locarno. L'anno dopo, forse su invito del luganese Cristoforo Torricelli, si reca a Basilea. Successivamente (1560) soggiorna ad Augsburg e durante gli anni 1561-63 è attivo a San Gallo. Più tardi si perdono le tracce. E' però da ricordare che attorno al 1572 appaiono portatori del nome Lupi: Martinus Lupi, organista alla cattedrale di Coira e (1572-76) Martin Wolf (Lupo) da Raetz, noto per la sua straordinaria bravura d'organista, alla cattedrale di San Leodegar a Lucerna. E, secondo un'ipotesi di A. Geering, non è da escludere che questi ultimi col Barbarino siano la stessa persona, in quanto a quel tempo l'inversione del nome era piuttosto frequente. Del soggiorno locarnese sono note: Symphoniae seu insigniores..., su testi tratti dall'Helvetiae Descriptio... Panegyricum... (ed. 1554) del Glareano, di cui il Barbarino musicò, integralmente, solo i versi del Panegirico, ossia quei versi che il poeta scrisse in lode delle tredici località-regioni che a quell'epoca costituivano l'assetto geografico della Confederazione Elvetica. Si tratta di tredici mottetti, tutti a cinque parti, che il Barbarino dedicò al teologo e dottore in legge di origine luganese Cristoforo Torricelli ("maioris cathedralis collegij Basiliensis"). Altri quattro mottetti, forse aggiunti in un secondo tempo e dedicati rispettivamente ai baliaggi di Lugano e Locarno, al "...poeta Signor Glareano" e ancora al Torricelli, completano questo ciclo ticinese. Composizioni pertanto importanti dal punto di vista biografico e di sicuro interesse, per l'intimo legame dei versi del poeta con la storia svizzera cinquecentesca. Quanto alle mus., assai vagamente riflettono i criteri compositivi cui il B., con "profondo rammarico", dice di essersi attenuto. Era infatti desiderio del compositore applicare, per dodici città svizzere, i dodici antichi modi del dodecacordo, riservando "un altro criterio" per Appenzello. "...Ma poiché il volgo dei cantori - com'egli ebbe a scrivere non comprende più queste cose chiare ai dotti di quest'arte, anzi, ne ride, preferiamo ora attenerci a procedimenti di comune consuetudine" ("Verum quoniam haec apud doctos huius artis clara cantorum hodie vulgus non intelligit, immo ridet: maluimus nunc inservire communi consuetudini"). Nobili propositi, non v'è dubbio, i cui limiti tuttavia è difficile ravvisare. Basta un'occhiata alle Symphoniae per rendersi conto come preoccupazione maggiore del compositore non fosse quella di allinearsi principalmente su formule o canoni coevi, ma piuttosto quella di offrire, attraverso un'ampia "carrellata" storica, una "summa" di esperienze, di stili, di conoscenze. Ne conseguono perciò compos. variamente articolate e di valore discontinuo, in cui, a momenti di raffinata elaborazione (dove pure tracce di originalità personale si fanno apprezzare) si oppongono episodi caratterizzati da un uso sintattico primitivo, che qua e là, dà luogo a frasi di piccole proporzioni, senza grande slancio e di pronunciata simmetria formale. Ben diverso invece il panorama offerto dai sedici mottetti (Cantiones Sacrae) composti ad Augsburg (1560). Qui, il compositore, oltre a una personalità veramente degna d'attenzione (si vedano, per esempio, i mottetti Ave Maria, n. 1, De pacem Domine, n. 6, rivela anche una sorprendente capacità di superamento di antichi stilemi, in un divenire di esperienze dove vecchio e nuovo si compenetrano armoniosamente. Quasi nulla sappiamo della permanenza augsburghese del Barbarino; ma ciò che egli scrive nella prefazione alle Cantiones ci sembra estremamente importante per tentare, a ritroso, un'esplorazione sulla vita e l'op. del compositore. Egli infatti dice che le Symphoniae non furono le sue prime op. stampate, ma ne apparvero già alcune prima e precisamente a Venezia: "Quia mihi dubium non est, quin antea quoque meae compositiones, praesertim quae Venetiis sunt impressae, in eorum devenerint manus". Purtroppo l'autore non dice chi siano le "manus", e neppure lo possiamo dedurre dal testo. A tale proposito sono da prendere in considerazione le due messe Peccata mea e Christus resurgens che nel "Liber Missarum... apud Hieronymum Scotum" (1539) appaiono sotto il nome Lupi. Tuttavia, per quanto riguarda la paternità di tali compos., bisogna considerare anche i due omonimi olandesi del Barbarino e cioè Lupus Hellink, morto nel 1541 e Johannes Lupi, morto nel 1539. Esaminando poi l'ingente corpo di mus. uscite col nome Lupi negli anni 1552-56, forte è la tentazione di identificare in uno di essi il nostro Lupo, anche perchè, secondo l'autore, altre compos. sarebbero state stampate, e non solo a Venezia. Nel 1561 l'abate Diethelm Blarer von Wartensee (priore del convento di San Gallo, convento tra i più conservatori del tempo), incarica l"insignem musicum" d'introdurre nella sua città, accanto all'antico stile omofonico la "pratica più vicina alla dignità": il canto polifonico. È questo un fatto che supera il semplice dato biografico, per coinvolgere non solo la vita musicale sangallese, ma anche l'itinerante Manfredo Barbarino in una nuova autorità artistica. La feconda operosità di questo periodo, che dura fino al 1563, è testimoniata da un "corpus" di ben 2004 brevi compos. a quattro parti, raccolte in due grossi codici pergamenacei: il 542 (graduale) e il 543 (antifonale): entrambi però presentano compos. che non ambiscono a posizioni di spiccata originalità. Eccezion fatta per le Passioni-mottetto secondo Matteo, Marco e Luca (cod. 543), dove è evidente il ricordo dei maestri del Nord (e specialmente di Jacob Obrecht), quasi tutta la rimanente produzione è improntata a riverente ubbidienza didattica e concorre a formare un prezioso corredo per le voci dei monaci sangallesi, verosimilmente ancora poco scaltrite nelle impervie escursioni del canto a più voci.